Oltre la soglia
Note sull’opera di Rejine Halimi
Rejine sta sulla soglia, ha cura dell’indicibile con amore e responsabilità. Il cuore dell’opera è custodito nella costanza sacrale del gesto, nella nascita (o ri-nascita) di quella materia vibrante, nonostante l’opacità, le asperità granulose del minerale, l’inchiostro rappreso. Il suo lavoro fa segno ad un progetto infinito, vertiginoso, ed insieme a tutta la dispersione che ogni realizzazione comporta.
Intorno – sulle cose dipinte, sulla mappa del giorno, sui pensieri – la luce si frange come un’onda, con il costante clamore di un’emersione: l’urto è sempre verso il sé, ineludibile e colmo di stupore. Nell’essenza di questo impatto, si raffigura la contraddittoria vitalità delle storie. Da una parte l’esistere caldo ed intimo, affettuoso di Rejine, nella sua coscienza più pura, scintillante di primo mattino, sinuosa nelle cadenze periodiche, nelle oscillazioni emotive, nell’abbraccio; dall’altra la spasmodica, originale concrezione del fare arte, con lo scroscio diseguale della forza che si esercita sui materiali e li penetra con passione. La coscienza (quella dell’artista e la nostra, allo stesso modo) viene cesellata dal passaggio della luce, lasciando un sentiero di ferite lungo come la vita intera. Rejine offre il mondo alla percezione, come il tempo sedimenta le montagne.
La pietra, ogni forma semplice ed irregolare della materia, gli infiniti purissimi frammenti del “ bello solido ” si danno al nostro sguardo per essere ri-significati in molteplici figurazioni simboliche. Parva poetica degli elementi, in cui il colore – raro, distillato – è l’espressione di una virtù nascosta, di un’aspirazione. Le essenze, nelle opere di Rejine Halimi, sono forme ancestrali, sbozzate dal corpo della terra. Si arriva al sentimento originario delle cose, quasi l’artista conoscesse i segreti della creazione (forse perché, quando il disegno del pensiero giunge a concepire il principio indifferenziato, significa che non è lontano dall’ Aperto in cui si definirà).
Come nella fiamma inquieta, proprio intorno al nucleo notturno e silenzioso dell’opera, al suo focus prospettico e concettuale ad un tempo, si addensa la chiarezza dei significati. La dimora consentita è lo strumento del passaggio: oltre quella soglia responsabile e nutrice, non vi sono oracoli. Piuttosto uno sguardo-gesto, carezzevole e presago: è il corpo dello spirito, ciò che Merleau-Ponty definisce con stupenda espressione carne del mondo.
Tuttavia, sul limitare, è Rejine a contare il tempo. Il lavoro dell’artista porta con sé un ritmo solo apparentemente casuale, in cui le oscillazioni tematiche vengono indotte anche dalla sovrapposizione continua di diverse figure, ognuna con la propria timbrica ma, soprattutto, con il proprio andamento metrico. Halimi risolve unitariamente un continuo processo di aggregazione-disgregazione, evidenziando in particolare la qualità strutturale del proprio agire. Se, all’inizio, il procedimento pare eludere una visione analitica in favore di una contemplazione colma di stupore, ben presto si viene catturati da quelle rapide filigrane a percorrere la superficie, sezioni di lama, morsure affamate. Formidabili azioni obbligatorie, su quei crinali di tela, legno o ardesia; mappe di viaggio vergate col sangue delle tinte, o sogni di precarietà smisurata. Comunque, il senso dell’entità armonica – in Rejine Halimi – non è tanto riconducibile al diapason emozionale del segno, quanto alla sua presenza-assenza nella composizione.
Come l’intervallo di un respiro, altrettanto naturale e prezioso; atto d’amore infinito, imprescindibile.
E chi lo riceve, oltre la soglia, ne è incendiato per sempre.
Francesca Ruth Brandes